Manifesto
L’attività del fotografo mi ha da sempre richiamato alla mente quella del traduttore. In entrambi i casi esiste un originale (il testo di partenza/la scena osservata) che, ai fini della divulgazione, viene presentato in una veste diversa (il testo di arrivo/la scena fotografata). È riscontrabile un’affinità anche nelle scelte operative: così come la traduzione può essere letterale, libera e persino creativa, anche la fotografia conosce diversi gradi di fedeltà nei confronti del mondo rappresentato, spaziando da un atteggiamento documentario sino a una rielaborazione immaginifica, con tutti i gradi intermedi. I risultati dipendono sempre, ovviamente, dalla capacità e dalla sensibilità del traduttore/fotografo, ma la qualità dell’originale gioca un ruolo chiave: testi o scene insignificanti possono portare a risultati meno soddisfacenti. Il parallelo fra le due operazioni può spingersi sino a prevedere la possibilità di migliorare o di peggiorare il modello base: possono infatti darsi traduttori che, a seconda del maggiore o minore estro rispetto ai poeti, realizzano traduzioni più o meno belle dei testi di partenza, così come fotografi più o meno bravi possono fornire immagini più o meno belle delle scene riprese. L’insieme di queste comunanze, al di là dell’esito, poggia comunque sul presupposto che le traduzioni e le fotografie sono in genere riconosciute come due pratiche in grado di riprodurre e di divulgare la copia di un originale.
Esiste però una differenza sostanziale. Mentre la traduzione può rivolgersi all’interezza del modello di partenza, la fotografia si limita necessariamente a ritagliarne un solo rettangolo. La fotografia, di conseguenza, più che alla traduzione di un testo completo può essere accostata a quella di un’antologia di un’opera. Questa limitazione strutturale e inevitabile (per la Sontag la fotografia è “una sottile fetta di spazio, oltre che di tempo”: Sulla fotografia, Torino, reprint, 2004, p. 21) connota fin da subito la fotografia come il frutto di un’attività selettiva. Nozione che viene confermata e ampliata dai modi in cui viene pensato e organizzato uno scatto fotografico, che è in effetti contraddistinto da una serie di altre scelte obbligate.
Alcune vengono in genere operate prima di cominciare le riprese. Inizialmente, per esempio, va deciso se lavorare con la tecnica digitale o con quella analogica, se fare fotografie a colori o in bianco e nero, se utilizzare supporti ad alta o a bassa definizione. La focale dell’obbiettivo, le modalità dell’esposizione e il tipo di inquadratura vengono normalmente scelte appena prima dello scatto. A scatto avvenuto, infine, vanno prese una serie di decisioni relative all’editing/sviluppo e alla stampa, per poi giungere alla fase finale che è la presentazione delle fotografie.
Questo elenco di scelte, e altre se ne potrebbero aggiungere, evidenzia come la realizzazione di una fotografia si risolva necessariamente in un’operazione interpretativa e ideologica. Pensiamo a due situazioni estreme di fronte a una stessa scena. Si ipotizzi che in un caso il fotografo utilizzi la tecnica analogica, una pellicola in bianco e nero a bassa sensibilità, un teleobbiettivo, un tempo veloce e un diaframma aperto, realizzando un’inquadratura dall’alto in basso e stampando, su una carta opaca di grandi dimensioni, una fotografia che verrà esposta da sola. In un secondo caso si ipotizzi invece che il fotografo, di fronte alla stessa scena, impieghi la tecnica digitale con una macchina ad alta risoluzione e faccia una fotografia a colori con un grandangolo, usando un tempo lento e un diaframma chiuso con un’inquadratura frontale, stampando poi su una carta lucida di piccolo formato la fotografia che verrà esposta assieme ad altre. Appare evidente come i due esiti finali forniranno due visioni molto diverse di quell’unica scena,
E questo risulta vero per ogni tipologia fotografica: dal servizio fotogiornalistico più impegnato alle espressioni astratte più gratuite, dalle fotografie di famiglia alle ricerche sul paesaggio, dalle riproduzioni di animali agli album di nozze, e così via. In altre parole, la fotografia esprime necessariamente l’idea che l’autore, nei limiti imposti dalle scelte tecniche, si fa della scena ripresa.
Ciò premesso, pare ingiustificato rimuovere da questo processo interpretativo e ideologico un’ulteriore fase che la moderna tecnologia mette oggi a disposizione, cioè l’elaborazione elettronica dell’immagine. Ci piace considerare questo tipo di elaborazione come una specie di secondo scatto rispetto alla prima inquadratura, un secondo scatto che modifica quello iniziale creando un nuovo rapporto con la scena ripresa. Si può parlare, in altri termini, di una sorta di ripensamento ‘a tavolino’ su una serie di scelte già operate nei confronti della realtà. L’autore può così rivedere con calma la sua fotografia (magari scattata in grande fretta) e crearne una versione più vicina alla propria sensibilità. Si tratta non più di avere un occhio speciale nei confronti della realtà, ma di averlo nei confronti di un’immagine della realtà. Sono azioni legate ad attitudini diverse.Le operazioni realizzabili con l’elaborazione elettronica vanno dai minimi aggiustamenti al fine di perfezionare alcuni dettagli sino a interventi di grande rilievo che possono invece sconvolgere totalmente l’immagine originale. Come nel caso dello scatto, anche qui le diverse soluzioni possibili riflettono necessariamente diversi progetti. Ancora una volta, cioè, si tratta di un’operazione interpretativa, solo che in questo caso è di tipo opzionale e non obbligatorio.
Data l’ampia gamma di possibilità, è anzitutto basilare decidere l’entità dell’intervento. Nel mio concetto di fotografia, tale intervento deve avere un limite, secondo cui gli effetti prodotti possono giungere sino a ricostruire il verosimile ma senza valicarne i confini. All’interno di questi confini, le modifiche introdotte non devono peraltro essere soggette a censura alcuna e possono portare, per esempio, all’eliminazione o all’aggiunta di parti così come ad aggiustamenti cromatici. Si pensi, per esempio, alla correzione di alcune forme imperfette (monti, pietre, laghi, strade, ecc.), alla rimozione di elementi indesiderati (fili della luce, rami, riflessi, sassi, ecc.), all’inserimento di componenti suggestive (alberelli, nuvole, uccelli, ombre, ecc.), alla scelta di colori più adatti (fiori, cielo, terreno, acqua, ecc.). Tutte alterazioni che nulla tolgono alla verosimiglianza dei luoghi e che danno vita a varianti della stessa scena (possibili in altri momenti e da altri punti di vista), a vantaggio dell’efficacia delle immagini proposte.
Il mio scopo, nello specifico, è quello di realizzare una presuntuosa aspirazione: soccorrere la natura nel rendere al meglio le potenzialità di un paesaggio quando questa si mostri ‘disattenta’ rispetto alla quintessenza di quei luoghi così come da me percepita.
Potremmo definire la possibilità ‘integrativa’ appena descritta come una variante estrema del processo di visualizzazione teorizzato a suo tempo, sulle orme di Edward Weston, da Ansel Adams: “Il termine ‘visualizzazione’ si riferisce all’intero processo emotivo-mentale di creazione di una fotografia e, come tale, è uno dei concetti più importanti nel contesto fotografico. Esso include la capacità di prevedere l’immagine finita prima di procedere allo scatto, così che le procedure impiegate possano contribuire a raggiungere i risultati voluti. Una gran parte di questo processo creativo può essere imparato e messo in pratica, ma esiste un qualche cosa che va al di là di questo e coinvolge la visione e l’intuito personale, l’occhio creativo dell’individuo, cose che non possono essere insegnate, ma solo riconosciute e incoraggiate” (A. Adams, The Camera, New York-Boston, 1980, p.1). Condivido questa teoria che richiede, però, di venire aggiornata alla luce delle nuove “procedure” possibili a livello della post-produzione fotografica. Un moderno concetto di visualizzazione, ugualmente intesa come la capacità di vedere l’immagine finale nell’inquadratura di partenza, deve infatti includere anche quelle riflessioni ‘creative’ che, fatte o meno in sede di ripresa, potranno poi venire utilizzate, magari riviste e precisate, al computer, dove la relazione, come già accennato, non sarà più tra il fotografo e la realtà ma tra il fotografo e la realtà fotografata, con un conseguente mutamento di sensibilità.
In sostanza, le nuove tecnologie concedono oggi al fotografo quella possibilità di riflettere che prestigiosi autori hanno un tempo considerato come significativamente assente nella fotografia. Dice in proposito Henri Cartier-Bresson: “Di tutti i mezzi espressivi, la fotografia è l’unico che fissi un momento preciso. Noi fotografi abbiamo infatti a che fare con cose che svaniscono e, una volta svanite, è impossibile farle rivivere. Non si può certo ritoccare il soggetto: al massimo si può scegliere fra le immagini raccolte durante un reportage. Lo scrittore ha invece tempo per riflettere prima che la parola prenda forma, prima di affidare i suoi pensieri alla carta; può così mettere insieme più elementi. C’è anche un periodo in cui il suo cervello ‘dimentica’, e il subconscio lavora a classificare i pensieri. Per noi fotografi, quel che è andato, è andato per sempre. Da qui derivano gli affanni e la forza della nostra professione. Non possiamo rimaneggiare nuovamente la storia una volta che siamo tornati in albergo. Il nostro compito è osservare la realtà e registrarla, in quell’album per schizzi che è l’apparecchio fotografico, senza cercare di manipolarla mentre scattiamo oppure in camera oscura. Questi trucchi sono chiaramente visibili per chi abbia occhi per vedere” (Images à la sauvette, Photographies par Henri Cartier-Bresson, Paris, 1952, pp.3-4 della prefazione con pagine non numerate). È evidente come anche queste osservazioni, legate alle contingenze storiche e tecniche del tempo, necessitino di un adeguamento. Chiarissime, in proposito, sono le parole di Michele Smargiassi: “La consapevolezza di poter ricorrere a comodi e potentissimi strumenti di post-produzione oggi altera a priori (molto più che nell’epoca analogica) il progetto di produzione di un’immagine fotografica. Già in partenza, ancor prima della cattura dell’immagine primaria, il metodo di lavoro del fotografo digitale prevede la possibilità dell’improvement. L’‘istante decisivo’ di Cartier-Bresson può essere oggi ricostruito a piacere su un monitor. Ma se così è, perché dannarsi l’anima a inseguirlo per le strade?” (M. Smargiassi, Un’autentica bugia: la fotografia, il vero, il falso, Roma, 2009, p.41).
Si tratta, in tale ottica, non più di fotografare un “momento preciso”, come suggerisce più sopra Cartier-Bresson, ma di individuare quel momento ed essere poi capaci di riprodurlo in modo adeguato ricorrendo a tutti i mezzi tecnici esistenti, sia di produzione sia di post-produzione fotografica. Può così succedere che la raffigurazione di tale momento, o almeno la sua ottimizzazione, venga sfasata nel tempo e che la sua cattura estemporanea ceda il passo a un’elaborazione successiva: la fotografia diventa così la resa ponderata di un’idea che rappresenta la realtà piuttosto che la rappresentazione immediata della realtà stessa. Le rielaborazioni fotografiche, tra l’altro, sono sempre esistite e sono sempre state applicate, solo che le nuove tecniche ne permettono varianti sofisticate, veloci e perfette.
Abbiamo a che fare, oggi più di ieri, con artifici illeciti? O, peggio ancora, con inganni? Forse è meglio parlare di un cambiamento nel rapporto del fotografo con il mondo, la cui ripresa non è più limitata ai tentativi fatti in diretta ma si estende alla fase successiva di una sofisticata post-produzione. In tale processo viene privilegiato il rapporto fra gli spettatori e la fotografia rispetto a quello fra il fotografo e la realtà, con la realizzazione espressiva che accentua i toni pubblici rispetto a quelli privati.
Si tratta di una focalizzazione diversa rispetto a quanto teorizzato da Cartier Bresson, secondo cui quello che conta è invece il gesto fotografico, inteso come un atto ‘sincero’ che coglie il momento decisivo della realtà. E poco importa, dal nostro punto di vista, che moderni software possano oggi smascherare le rielaborazioni digitali. Non è questo il punto. Illuminanti sono, ancora una volta, le parole di Michele Smargiassi: “Esiste oggi una sola fotografia mediatizzata che arrivi ai suoi destinatari senza alcuna manipolazione? È mai esistita? Il software antifrode non rischia solo di dimostrare una verità di cui la nostra intelligenza tecnologicamente arretrata è già convinta da tempo, ovvero che in misura maggiore o minore tutte le immagini mentono, e che si tratta semplicemente di non essere ingenui e di fare il miglior uso possibile delle bugie?” (M. Smargiassi, Corazze e proiettili, Fotocrazia, La Repubblica.it, 23 gennaio 2010).
L’insieme di queste riflessioni riconduce a un mondo ideale che si sovrappone alla realtà, accordando al fotografo la capacità di trasformare variegate situazioni contingenti in un solo quadro esemplare che però, come già anticipato, deve essere anche necessariamente ‘verosimile’. “Conforme al vero, fino al punto da garantire la probabilità o la credibilità di un fatto anche non avvenuto, non documentato, non atteso”; così descrive il significato di ‘verosimile’ il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli. Secondo Aristotele, il privilegio del poeta rispetto allo storico è proprio quello di narrare non le cose accadute ma quelle che possono accadere, cioè quelle possibili secondo le leggi della verosimiglianza, risultando delegato a rappresentare l’universale e non il particolare, come si legge all’inizio del capitolo IX della Poetica. Nel rispetto di tali indicazioni, non si deve correre il rischio di falsare la scena fotografata con elaborazioni che diano vita a soluzioni irreali. Un intervento eccessivo e fuori luogo attirerebbe l’attenzione sull’intervento stesso e sulla sua improbabilità impedendo, o comunque ostacolando, altri tipi di riflessione (ipotesi plausibile ma lontana dai miei intenti nell’attuale contesto).
Si può insomma giungere sino a ricostruire il verosimile ma, come già specificato, senza varcarne i confini, ipotizzando unicamente il ricorso a interventi credibili, di basso impatto e finalizzati soltanto a migliorare la fruizione dell’immagine. Bisogna essere sicuri, in altre parole, di non stravolgere le leggi della scena raffigurata. È quindi un’operazione possibile solo a persone esperte che utilizzino le proprie capacità tecniche non per allontanare le immagini dal referente ma, al contrario, per migliorare, delle immagini, il rapporto con quella realtà ‘paradigmatica’ che si è venuta formando nella mente grazie a osservazioni quotidiane e approfondite. Seguo, in questo, gli insegnamenti di Abbas Kiarostami che, in più di un’occasione, mi ha convinto della bontà di questa filosofia dell’immagine che insieme una volta definimmo, nel contesto persiano, una sorta di ‘realismo ideale’. Si tratta di un metodo utilizzato da vari fotografi, anche di reportage. Una testimonianza illuminante in proposito sono gli interventi praticati da Eugene Smith, sia nel vivo delle scene sia nella fase di stampa, e miranti, come lui stesso diceva, a una “riorganizzazione a beneficio della realtà”, il tutto improntato a una sorta di idealizzazione emblematica ed emotiva del quotidiano (W. Eugene Smith, Du côté de l’ombre, a cura di G. Mora e J.T. Hill, Paris, 1998, p.16, pp.337-340).
Quel che conta in tale ottica è dunque, soprattutto, l’idea che il fotografo ha della realtà. E se la realtà si rivela in qualche modo insoddisfacente rispetto a un modello verosimile ipotizzato dal fotografo, essa può essere corretta e riportata a una maggiore aderenza a tale modello.
Va anche ricordato che, nella mente del fotografo, può formarsi più di un modello ideale a correzione e a integrazione della realtà osservata. Possono infatti immaginarsi vari cambiamenti alternativi che diano vita ad altrettanti differenti esiti finali. Il risultato è che in una stessa realtà possono nascondersi numerose varianti verosimili, in un gioco a diversi livelli e con molteplici sovrapposizioni che trasformano il mondo in un grande caleidoscopio.
Una volta completata l’immagine secondo la logica ora delineata, si tratta di stamparla e di presentarla, con tutte le varianti che anche in queste due azioni risultano possibili. Si pensi per esempio, nel primo caso, al tipo e alla dimensione della carta (sempreché non si voglia usare un altro supporto) e, nel secondo, ai modi della confezione e dell’esposizione al pubblico (passe-partout, cornici, libri, mostre, fotografie singole, a coppie, in sequenza, ecc.).
Ci preme sottolineare come il processo descritto richieda, nelle sue varie fasi, capacità che potremmo schematicamente collegare, ispirandoci a un famoso pensiero di Henri Cartier-Bresson, a tre ‘organi’: l’occhio, la mente e il cuore. L’occhio osserva e sceglie, la mente riflette ed elabora, il cuore accende l’anima e suscita emozioni. Solo la coesistenza di queste tre funzioni assicura una qualità base alla fotografia, e una qualsiasi mancanza in questa triplice impostazione implica una resa insoddisfacente. La scelta di un paesaggio, per esempio, può essere adeguata ma, se non viene in soccorso la mente, la costruzione dell’immagine può risultare mal organizzata e, se non interviene il cuore, la stessa immagine può risultare fredda e priva di vita. Un esempio può essere illuminante. Gli album di famiglia contengono talora fotografie che risultano il frutto di un buon occhio e di un cuore appassionato, ma che spesso mancano di quell’elaborazione che è tipica della mente. Bastano, in tal caso, pochi tocchi correttivi per aumentare il fascino di quelle immagini.
In conclusione, vorrei ricordare che la mia attività fotografica non ha mai avuto i tratti esclusivi tipici del mondo professionistico. Le mie fotografie sono state fatte durante viaggi, spesso di famiglia e talora di studio, durante i quali ho realizzato una serie di scatti ‘occasionali’, senza la possibilità di lunghe attese, di visite mirate o di scatti ripetuti.
Per quanto concerne l’attrezzatura tecnica, inizialmente ho usato diapositive Kodak (in genere con sensibilità di 200 ASA) e apparecchi fotografici Nikon (Nikkormat e Nikon FM2) con obbiettivi da 50 mm e 135 mm (in qualche raro caso ho utilizzato un obbiettivo da 24 mm) dotati quasi sempre di un filtro polarizzatore; delle diapositive è stata poi fatta la scansione con lo scanner Nikon Super Collscan 5000. In tempi più recenti (a iniziare dal 2007) ho utilizzato la tecnica digitale, con la Nikon D300 (obbiettivo 18-200) e la Nikon D500 (obbiettivo 18-300 mm).